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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Quando nel 2010 la “Manon Lescaut” di Puccini firmata da Graham Vick debuttò sul palcoscenico del Teatro La Fenice di Venezia, suscitò grande rumoreggiare tra il pubblico. Ora dopo otto anni si può dire che sia diventato uno spettacolo quasi storico, che non suscita scandalo, ma soltanto ammirazione, per la sapienza del regista inglese di raccontare la storia di Manon, una ragazzina come tante oggi, che per l’IPhone o per una borsa o pelliccia (in questo caso), griffata, sono disposte a prostituirsi. Il primo atto si apre in una scuola, dove gli studenti con Edmondo e Des Grieux cantano la giovinezza. Dal cocchio disegnato sulla lavagna scende Manon con suo fratello Lescaut. Anche lei vestita da liceale, con le treccina e l’aria spaventata da nuova della classe. L’amore distrugge la morale e trasporta tutti nel paese dei balocchi, un Luna park, con una giostra con dei meravigliosi cigni e un Hau Den Lukas, dove Geronte vince un grande orso rosa, dove Manon e Des Grieux si professano amore per la prima volta, prima di scappare a bordo di un candido cigno.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Il secondo atto si apre in un teatrino di matrice settecentesca, dove Manon sniffa droga in compagnia del suo tatuatore e di suo fratello, il quale non perde occasione per palparla e con il quale lei stessa fa la civetta. Il maestro di ballo non è altro che un voyeur che scatta fotografie dell’ammiccante Manon, mentre indossa il nuovo regalo di Geronte, una grande pelliccia. All’esibizione assistono tanti uomini maturi (probabilmente seri professionisti con famiglia) e prelati, tutti bramosi di sesso e di droga. Il lungo duetto con Des Grieux si svolge tutto intorno ad una grande altalena, utilizzata da Geronte per i suoi giochi bondage e sadomaso (la lettiga del libretto).  Il terzo atto (dopo un intervallo della durata di quasi quaranta minuti) si apre con una grande piattaforma issata sopra una grande fossa, una discarica. Le prostitute sono appese dentro delle crinoline rovesciate, mentre Manon nell’altalena dell’amore. Ai lati del palcoscenico delle scalette per le navi, dove tutte queste splendide si mettono in fila, mentre Manon e il Cavaliere rimangono avvinti, sotto l’esplosione di tante nastri colorati, lanciati dagli astanti. Il quarto atto svela la discarica in tutta la sua profondità e lì i due amanti vengono gettati. Dall’alto tutto intorno alcuni studenti guardano la tragedia così intima e soffocata di Manon e Des Grieux. L’unica ragazza rimasta fino alla fine a guardare lancia l’ultimo nastro colorato, perché l’amore di Manon “non muor”. La regia era ripresa da Marina Laura Bianchi, la quale ha saputo ben costruire la recitazione attorno ai singoli cantanti, che dimostravano lodevole capacità recitativa, nonostante non sempre fossero fisicamente aderenti. Bellissime le scene di Andrew Hays e i costumi di Kimm Kovac. Fondamentale il meraviglioso disegno luci di Giuseppe Di Iorio. Ricordiamo anche i movimenti mimici di Ron Howell ripresi da Danilo Rubeca.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Tra i ruoli di fianco Alessandro Busi (Comandante di Marina), Giovanni Bellavia (Un oste/Sergente degli arcieri), Bruno Lazzaretti (Un lampionario/Maestro di ballo). Un vero lusso il Musico di Alessia Nadin, mentre di ottima caratterizzazione è l’Edmondo di Andrea Giovannini.

Romano Dal Zovo è davvero una vocalità di grandissimo valore, cantante sempre in miglioramento e interprete accurato. Il personaggio, vista la giovane età, è molto lontano dalla tradizione: insinuante e perverso. Per lui siamo sicuri che ci sarà un grande futuro, con grandi ruoli.

Elia Fabbian (Lescaut) è un ottimo interprete. La vocalità non è privilegiata per timbro, ma è di volume abbastanza sonoro. Il personaggio è disegnato distintamente, soprattutto nell’ambiguo rapporto con la sorella.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Sung Kyu Park è una voce che avevamo già conosciuto ed apprezzato qualche anno fa in un altro temibile ruolo tenorile, Osaka in “Iris”. Anche questa volta lo troviamo alle prese con un cimento, Renato Des Grieux, da cui moltissimo tenori si sono tenuti a debita distanza. Il tenore coreano supera bene questo scoglio, grazie ad una voce benedetta per timbro e ad un’evidente ricerca di sfumature: in questo senso “Donna non vidi mai” è davvero ben cantata. Per timore forse tuttavia qualche acuto risulta un po’ indietro e leggermente ingolato, non inficiando come una prestazione convincente.

Francesca Tiburzi non avrebbe secondo noi in natura la voce per cantare Manon Lescaut: lo notiamo dal fatto di un registro grave innaturale e un po’ gutturale. La voce è di timbro particolare, bello, tuttavia cerca quello che volgarmente si chiama affondo per ottenere un suono rotondo, con il risultato di una voce che non trova sempre la proiezione giusta per superare l’imponente orchestrazione pucciniana e una dizione un po’ oscura in qualche momento. . Le sue carte migliori le gioca quando la tessitura sale, e l’acuto è sicuro e luminoso. Il personaggio è comunque convincente e si giova di una fisicità “burrosa”, utilizzata scenicamente con coscienza. Dobbiamo anche dire che si tratta di un debutto nel ruolo (purtroppo con una recita sola) e in un allestimento tutt’altro che facile.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Il vero mattatore della serata è però Francesco Ivan Ciampa, capace come pochi di sostenere il canto, di amare le voci in palcoscenico. Una dote fondamentale per il teatro musicale, ma che non tutti possiedono, poiché innata. Inoltre il direttore avellinese minia ogni dettaglio strumentale, ogni sinfonismo della partitura pucciniana, senza diventare noioso: anzi ogni sfumatura è densa di sentimento, ogni grande cavata è intensa, senza mai diventare eccessiva. Una direzione elegante e una lettura appassionante. L’Orchestra rispondeva eccellentemente e con grande sintonia agli stimoli del podio. Molto bene anche il coro diretto da Vito Lombardi.

Alla fine un caloroso successo.

Francesco Lodola

Verona, 6 marzo 2018

Foto Ennevi per Gentile Concessione Fondazione Arena di Verona

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