Il metodo di recitazione di Stanislavskij vedeva come principio fondante il viaggio dell’attore nella sua interiorità per trovare il legame con il personaggio da portare in scena. Sul palcoscenico l’identificazione dell’attore nel ruolo doveva dunque essere epidermica, una soluzione di complementarietà psicologica ed emotiva. Franco Faccio con il suo Amleto sembra fare lo stesso e nelle caratteristiche del suo principe di Danimarca è facile ritrovare anche pieghe della sua frastagliata e fragile psiche. L’opera d’arte riflette spesso il suo genio creatore: pensiamo banalmente a Beethoven e all’oscurità che scaturisce da alcune pagine, o a Mozart che nel Requiem sembra rivelatorio di quelle ferite infantili e di quella vena malinconica che attraversa la sua apparente gaiezza. Faccio sceglie un processo ancora più doloroso, compiendo una sorta di “maieutica” socraticamente intesa, dialogando con il suo Amleto, in un modo talmente aggressivo che viene da chiedersi quale sarebbe stata la sua evoluzione come artista nel momento in cui come drammaturgo già tanto dice in quest’opera. Ci sentiamo di affermare e siamo praticamente certi di non essere in errore, che Faccio è insieme a Verdi l’unico a cogliere l’intera cifra shakespeariana adattandola alle esigenze del teatro musicale, ma non smarrendone mai la trama emozionale e cromatica. Il fondamentale trait d’union tra i due è Arrigo Boito, che qui nella sua fase giovanile e più scapigliata che mai sciorina un lessico e un’aggettivazione da capogiro, con un effetto divertente (viene quasi da chiedersi quale altro aggettivo verrà fuori al verso successivo), mancandogli sicuramente quell’asciuttezza della collaborazione verdiana, ed esagerando in qualche manierismo stilistico. Tuttavia nel suo libretto Shakespeare non manca: c’è il cinismo, c’è il buio, c’è la luce, c’è la poesia e la “volgarità”. C’è il senso di mescolanza e continuità tra il registro basso e alto che caratterizza solo monumenti letterari come Dante e Shakespeare. La conferma ancora una volta che Boito andrebbe raccontato di più e studiato (di più) anche tra i banchi di scuola.

La curiosità per la prima ripresa moderna in Italia, nella città natia di Franco Faccio, invero nutrita da anni di attesa causa la cancellazione pandemica e fortemente tenuta viva da Fondazione Arena e da Cecilia Gasdia, era tutta per la musica. Anche da quel punto di vista è stata una rivelazione per il pubblico. Chi scrive conosceva già l’opera dalla produzione andata in scena a Bregenz qualche anno fa e e che gode pure di una riuscita registrazione discografica. Si tratta di un lavoro che fonde influenze diverse, da quella wagneriana e verdiana, a quella di certo operismo francese (sia di certo meyerbeerismo che di autori di matrice primordialmente “naturalista”). Tuttavia Faccio si impone anche con una sua cifra stilistica, trovando uno spessore musicale e psicologico per caratterizzare ognuno dei personaggi e anche uno stile di canto che ne evidenzi le trame espressive. Il canto con cui si esprime Amleto, declamato e che impegna il tenore su una tessitura ampia ed ardua dal grave all’acuto, si può ritrovare con lo stesso impeto solo in titoli posteriori di qualche decennio (viene in mente la Isabeau di Mascagni).

Fortunatamente Angelo Villari arriva all’appuntamento agguerrito tecnicamente e supera anche le aspettative, rivelandosi come interprete alla pari del cantante che già avevamo avuto di apprezzare. Coglie tutte le sfumature del personaggio e utilizza un estesissimo ventaglio di espressioni che lo rendono praticamente ideale per il ruolo.

Accanto a lui Gilda Fiume regala ad Ofelia il suo canto alato e un candore espressivo che la rendono adeguato contraltare all’oscurità del protagonista. Saverio Fiore affronta il ruolo anch’esso temibile di Laerte con solidità vocale e tagliente espressività.

Leggermente inferiore la coppia regale, Marta Torbidoni (Gertrude) e Damiano Salerno (Claudio). Lei possiede una certa asprezza timbrica vantaggiosa, pagando però pegno in una tessitura da soprano “Falcon” che richiede un canto solido anche nel registro più grave, da autentico mezzosoprano. Lui esibisce un canto muscolare e che non bada troppo al le finezze espressive.

Amleto richiede una schiera di personaggi secondari (dallo spettro del cui tonante Abramo Rosalen al Polonio del bravo Francesco Leone) dotato ognuno di un proprio momento di luce e di scrittura vocale non sempre agilissima. Qui tutti rispondevano compattamente e adeguatamente alla sfida. Erano l’Orazio e il Marcello di Alessandro Abis e Davide Procaccini, Enrico Zara (un araldo), Francesco Pittari (il Re di Gonzaga), Marianna Mappa (la regina), Nicolò Rigano (Luciano), Maurizio Pantò(un sacerdote) e Valentino Perera(primo becchino).

Sul podio Giuseppe Grazioli, subentrato all’inizialmente previsto Alessandro Bonato, si dimostrava bacchetta attenta sia alle esigenze del canto (con un’orchestrazione così lussureggiante il rischio di sovrastare le voci è sempre dietro l’angolo) che a quelle del dramma. Il coro diretto dal Mº Roberto Gabbiani offriva nell’acme emotivo IV atto prova delle sue eccellenti qualità.

Lo spettacolo di Paolo Valerio è raffinato ed efficace, in grado di cogliere (conosciamo d’altronde il suo essere uomo di teatro nel profondo) tutte le architetture sia di Shakespeare che di Faccio/Boito, e di tradurle visivamente (grazie alle proiezioni e minimali scene di Ezio Antonelli e le luci di Claudio Schmid) in modo suggestivamente impattante.

Il velo su Amleto è stato divelto e così anche sul suo infelice autore. Ci auguriamo che egli possa trovare ancora esecuzioni e successi come questo nella sua Verona, che sembra averlo ripagato delle sue sofferenze.

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